Confraternita della Lumaca

Prof. Riccardo Cavallo
Filosofo del diritto. 

Festina Lente

Il primo febbraio 1975 in un noto articolo edito sul Corriere della Sera intitolato, originariamente, Il vuoto del potere in Italia, Pasolini scriveva:

«nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni, le lucciole non c’erano più».

Sono passati ormai cinquant’anni da quando il poeta e scrittore friulano ricorreva alla metafora della scomparsa delle lucciole per sottolineare, tra l’altro, anche la violenta distruzione della civiltà contadina operata dalla società dei consumi. Questa poetica e nostalgica osservazione non passa inosservata a Georges Didi Huberman, il quale in un provocatorio libretto intitolato, non a caso, Come le lucciole, si è esercitato in una sorta di corpo a corpo critico-rmeneutico anche con il testo pasoliniano.

Al pessimismo radicale di Pasolini, lo storico dell’arte francese oppone il proprio ottimismo tragico capovolgendone la prospettiva: la luce accecante delle metropoli non permette all’uomo contemporaneo di vedere le lucciole che continuano ancora a danzare con il loro bagliore intermittente nel cuore della notte.

A distanza di cinquant’anni dall’articolo di Pasolini in un piccolo borgo Vacri nel cuore dell’Abruzzo disteso su una zona collinare tra i corsi d’acqua del Foro e del Dendalo un bagliore diverso si avverte. Non più il barlume delle lucciole che balugina nell’aria, ma la scia iridescente della lumaca saldamente ancorata alla terra. La lumaca, appunto emblema della lentezza, che si muove in direzione ostinata e contraria rispetto all’eccessivo dinamismo che caratterizza la nostra contemporaneità campeggia in bianco e nero nello stemma dal sapore retro di questa confraternita, i cui legami sono più simili ai rami che alle radici di un albero, le cui fronde si estendono ben oltre il luogo in cui viene piantato il seme. La lumaca è rappresentata, in modo paradossale, non nel suo essere immobile, ma come se la sua torsione e la posizione delle antenne ne lasciassero intuire il suo essere perennemente in movimento o in allerta.

Se dovessimo individuare delle parole-chiave che dovrebbero campeggiare sul frontone del tempio di questa singolare confraternita, sulla scorta dell’intuizione di Alexander Langer, esse sarebbero: lentius, profundius, suavius. La lentezza, innanzitutto, il cui elogio è rinvenibile nelle piegbe di un testo a tratti lirico, intitolato Il pensiero meridiano, scritto dal sociologo Franco Cassano, in cui egli contrappone l’andare lenti come «un vecchio treno di campagna» alla «stolida esperienza della velocità di massa». L’affrettarsi lentamente (festina lente) permette altresì di «conoscere i nomi degli amici, i colori, le piogge, i giochi e le vegie, le confidenze e le maldicenze», ma soprattutto «rispettare il tempo» e «assaggiare con il corpo la terra che attraversiamo». Non a caso, sulla copertina di color giallo fluo di una delle edizioni più recenti di un altro scritto di Cassano Modernizzare stanca, risalta l’immagine di una lumaca sulla tastiera di un computer quasi a suggellare il contrasto stridente tra la velocità della comunicazione ai tempi del web e la proverbiale lentezza di questo gasteropode le cui antenne sono capaci di intercettare i segnali di una modernità che sta mettendo a dura prova la tenuta del nostro pianeta.

In secondo luogo, l’ancestrale e profondo legame non con la terra tout court, ma con la terra-madre che accoglie nel grembo materno i suoi figli. Lo si può evincere, dal termine tedesco Heimat di per sé ambiguo e contraddittorio e che noi siamo soliti tradurre con Patria, ma che potremmo rendere, seguendo le orme dei fratelli Grimm, con il neologismo matria. Se proviamo, a sfogliare il loro Deutsches Worterbuch scorgiamo, infatti, l’esistenza di due diversi termini: Vaterland e Heimat. Se il primo richiama la terra del padre, del patrimonio e della proprietà, il secondo, invece, rievoca il dolce tepore della casa materna (HHeim) de focolare domestico, il luogo in cui sentirsi al sicuro,al riparo dalle intemperie. Del resto, anche uno degli strati di cui si compone il guscio in cui si rifugia la lumaca, essendo costituito da madreperla non solo nell’etimologia mater perlarum ma anche per il suo crescere lentamente e con estrema cura rammenta la metafora materna.

L’ultimo lemma, suavius, richiama la dolcezza, la mitezza, virtù che in un mondo dominato dalla competizione e dalla sopraffazione, sembra essere destinata al tramonto.

La mitezza non va, però, confusa con l’accondiscendenza, la fragilità o la debolezza poiché, come affermato dal filosofo del diritto Norberto Bobbio, è vero che il mite non apre per primo il fuoco ma è altrettanto vero che «quando lo aprono gli altri, non si lascia bruciare, anche quando non riesce a spegnerlo. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità». Dunque, l’idea di misura e di prudenza (pbronesis) che ben si addicono alla lumaca, si contrappongono alla tracotanza (bybris) di un sistema capitalistico che, a dispetto del suo volto allettante, sta progressivamente distruggendo il pianeta. Anche in questo caso, la lumaca diventa il simbolo di qualcosa che, avvedutamente, non vuole arrendersi a una modernità senza freni che come un vento impetuoso intende fare tabula rasa di qualsiasi richiamo al passato e che sembra quasi ergersi, sia pur con la sua fragilità, a difesa del mondo di ieri, o forse di domani, come nella suggestiva immagine di Ivan Illich, che recita, più o meno, così: «se la lumaca dopo aver aggiunto al suo guscio un certo numero di spire, invece di arrestarsi, ne continuasse la crescita, una sola spira ulteriore aumenterebbe di sedici volte il peso della sua casa e la lumaca ne rimarrebbe inesorabilmente schiacciata»